martedì 23 ottobre 2012

Documento dei Circoli Socialisti dei Nebrodi approvato a Capo d’Orlando


I socialisti dei Nebrodi, riunitisi il 23 ottobre a Capo d’Orlando (ME) assieme ai rappresentati del Movimento per il Territorio ed al candidato all’Assemblea regionale siciliana Avv. Marcello Greco, individuano nella proposta politico-programmatica del Movimento stesso, così come è stata elaborata nel corso delle assemblee svoltesi il 10 settembre a Giardini Naxos ed il 6 ottobre a Ragusa, le potenzialità per un rilancio delle energie civiche e sociali presenti nei territori che compongono la Regione Siciliana, a partire da quelle aree che possono apparire geograficamente marginali e che tuttavia esprimono potenzialità economiche di grande importanza, come nel caso della zona nebroidea.
Rispetto alla complessità delle sfide che attendono la Sicilia, cresce la sensazione di non riuscire nell’intento di dominare i fenomeni, di non comprendere il sistema delle connessioni che sono all’origine delle dinamiche economiche, sociali e politiche di una società sempre più “liquida”, come è quella odierna.
La misura dello smarrimento aumenta man mano che diminuiscono le dimensioni ed il peso specifico delle comunità territoriali. Più si è piccoli, isolati, lontani dai grandi centri e scaraventati alla periferia del mondo, più si percepisce un senso di inadeguatezza dei nostri territori.
Come possono uscire gli enti territoriali da una simile impasse? Non di certo arrancando in una mera gestione del giorno dopo giorno; occorre acquisire coscienza e conoscenza, attivare processi virtuosi che mettano le aggregazioni nella condizione di leggersi, interpretarsi e, soprattutto, rigenerare se stesse, alla luce del sistema di relazioni che le agganciano al mondo circostante.
I socialisti dei Nebrodi ed il Movimento per il Territorio intendono costruire un luogo di discussione politica pubblica da offrire a chi intende  impegnarsi per superare la afasia dei Partiti e che, collegandosi alla lista “Crocetta Presidente” ed alla candidatura di Marcello Greco, traghetti questo territorio da una concezione autoreferenziale del governo locale ad un rovesciamento dei rapporti di forza tra centro e periferia, in armonia con gli stessi principi dell’Autonomia speciale.
Come sottolineato dalla prestigiosa presenza di Lucia Borsellino, intervenuta all’assemblea dei socialisti dell’area dei Nebrodi, la Sicilia ha bisogno di un nuovo contesto di rapporti seri, chiari e trasparenti tra le istituzioni: con Rosario Crocetta è possibile realizzare il riscatto della politica a partire dalle realtà più avanzate del governo locale, chiamate a fare sistema per costruire una nuova specialità incardinata sulle parole d’ordine della responsabilità e del progresso
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I CIRCOLI SOCIALISTI DEI NEBRODI

lunedì 10 settembre 2012

Da Giardini Naxos parte il “Movimento per il Territorio”: appuntamento il 6 ottobre a Ragusa


Si è svolta il 10 settembre presso l’Hotel Hilton di Giardini Naxos la manifestazione regionale organizzata dai Circoli Socialisti, liberali e laici, dalle liste civiche, dalle associazioni del territorio sul tema dei “patti federativi” destinati a dare vita a nuove polarità politiche.
La manifestazione ha visto la partecipazione di un numerosissimo pubblico, che ha dato vita ad un intenso dibattito, con numerosi interventi di amministratori locali nonché di tanti giovani che rappresentavano le associazioni che hanno aderito all’iniziativa. La discussione è stata introdotta da Salvo Andò e Nello Dipasquale, i quali hanno evidenziato come sia a livello nazionale che a livello locale si è di fronte alla conclusione di un ciclo politico ed istituzionale, che rende improponibile qualunque tentativo di riproporre il bipolarismo dell’ingovernabilità e dei parlamentari nominati dall’alto attraverso liste bloccate.
A conclusione della manifestazione è stato presentato un ordine del giorno, approvato dai partecipanti, che designa il percorso organizzativo della rete dei movimenti e l’embrione di un programma che va ben al di là dell’appuntamento elettorale regionale .
Nel documento si rileva che «la partecipazione di cui il paese ha bisogno deve essere organizzata dal basso attraverso nuove forme di raccolta del consenso, un consenso basato su una discussione pubblica davvero libera e sulla libertà riconosciuta agli elettori di scegliere i propri rappresentanti considerate le loro capacità e la loro credibilità personale». Sulla base di questo convincimento le reti dei Circoli Socialisti e le diverse associazioni politiche e culturali, nonché le liste del “Patto del territorio” creato da Dipasquale hanno deciso di aggregarsi per dare vita ad un unico “Movimento per il Territorio”, il quale si candida a ricoprire il grande spazio che oggi esiste tra i grandi partiti del bipolarismo coatto, il Partito Democratico e il Popolo della Libertà. Vi sono le condizioni perché all’interno di quest’area si crei una nuovo polarità che rifiuta le logiche di un bipolarismo muscolare e inconcludente. La Sicilia può essere un utile laboratorio di queste nuove esperienze considerato che il mondo politico siciliano si presenta ormai con un vero e proprio deserto della politica a causa del dissolvimento dei partiti, prodottosi nel corso di questi ultimi anni a causa delle note vicende regionali. L’adesione del movimento alla lista “Crocetta presidente” costituisce il primo passo per la ricostruzione di un ambiente politico che consenta di dare il giusto rilievo al valore delle idee e delle persone che scendono in campo, all’interno di un rapporto con la realtà territoriali che deve essere permanente ed efficace. Il successo dell’iniziativa della lista “Crocetta presidente” è legato alla visibile garanzia di discontinuità che esse devono dare rispetto a tutto quanto è avvenuto a livello regionale in questi anni, e che oltre a produrre gravi livelli di ingovernabilità ha di fatto determinato una prolungata paralisi dell’Assemblea regionale.
Il territorio ormai si sente escluso, strumentalizzato dai partiti afflitti da forme organizzative sostanzialmente antidemocratiche e considerato tutto ciò che essi fanno,o non sono in grado di fare. Occorrono nuove idee da porre a base di un diverso modo di funzionare delle organizzazioni politiche, che li metta in grado di attrarre le persone e non di respingerle. Si tratta di sapere affrontare i problemi da troppo tempo elusi, che non possono essere certo risolti con le chiacchiere che riguardano le questioni interne ai partiti. La Sicilia non ha bisogno di partiti dominati da risse prodotte da nomenclature ristrette. Deve essere ripristinato il valore della discussione pubblica e della direzione collettiva delle organizzazioni politiche.
È stato sottolineato da quasi tutti gli intervenuti che questo rapporto col territorio non può dar luogo ad uno sterile autonomismo della denuncia, cioè privo di visione politica e produttivo di forme di neocentrismo, attraverso le quali la partitocrazia palermitana si sostituisce alla partitocrazia romana. Restituire lo scettro cittadino deve significare in concreto sapere dare conto alla gente di ciò che si fa, del perché lo si fa e di chi lo fa. In questa ottica il patto federativo rappresenta una forma trasparente attraverso cui il “Movimento per il Territorio” via via si associa ad altre soggettività politiche e, in vista dei prossimi appuntamenti elettorali, stipula alleanze sulla base di un contratto dai precisi contenuti programmatici. Al centro delle intese devono esserci idee e progetti, considerato che la fine delle ideologie non può significare la fine degli ideali, e soprattutto di una visione di futuro condivisa capace di mettere insieme uomini e donne desiderose di partecipare al governo della res publica.
Il “Movimento per il Territorio” deve trovare la sua ragion d’essere in una certa idea della democrazia deliberativa; esso in questa ottica deve sapere ben padroneggiare gli strumenti della democrazia diretta. Deve saper parlare delle libertà e dei diritti, consapevole che per garantire agli altri occorrerà togliere qualcosa a qualcuno per darla ad altri. Non ci potrà essere il “governo efficiente” se esso non porrà a base delle proprie scelte il principio dell’eguaglianza sostanziale .
Del programma e della struttura del “Movimento per il Territorio” si parlerà il 7 ottobre 2012 nel corso di una convention che si svolgerà a Ragusa e in cui verranno approvati dei documenti programmatici elaborati da una commissione coordinata da Maurizio Caserta e che si avvarrà dei contributi che verranno dalle diverse associazioni.
Se i partiti, hanno rilevato i partecipanti alla convention di Giardini, oggi parlano soltanto delle alleanze, e di come porsi nei confronti di ciò che è avvenuto in passato all’Assemblea regionale, il “Movimento del Territorio” parlerà soprattutto di futuro e delle idee da porre a base di un patto con la gente.
Salvo Andò ha chiarito con riferimento alla natura del Movimento, che oggi si avverte la necessità di avere un autonomismo progressista che non sia né arrogante né autoreferenziale, che non si limiti alla denuncia contro lo Stato inadempiente ma che risulti convincente attraverso le buone pratiche di governo che riesce a promuovere . Esso deve sapere parlare soprattutto ai giovani che vedono la politica come un affare degli addetti ai lavori e agli elettori in fuga dai partiti, considerato che i due maggiori partiti insieme sono molto al di sotto del 50%. «Non c’è nulla di più lontano dal nostro Movimento – afferma Salvo Andò – delle forze dell’antipolitica, considerato che nel “Movimento per il Territorio” vi sono anche alcune personalità che hanno fatto politica ma che non hanno nessun interesse a che i partiti continuino a essere quello che sono diventati, anche perché incapaci di esprimere quella forte tensione ideale che ha caratterizzato il sistema politico che ha dato vita alla Costituzione e alla Repubblica. È bene che i partiti possano risorgere, rilanciando la propria immagine, ma è necessario perché ciò possa venire che si ristabilisca un rapporto di amicizia tra essi ed il paesi, che i partiti insomma vengano vissuti come attori importanti di quel cambiamento grazie al quale la gente possa vivere meglio».
Il “Movimento per il Territorio” si organizzerà attraverso adesioni individuali e collettive, organizzerà annualmente un congresso nel quale sarà approvato un sintetico documento di intenti che costituirà il punto di riferimento dell’azione politica che dovrà essere svolta. Sarà al livello comunale e provinciale che si selezionerà il gruppo dirigente locale e si sceglieranno alleanze e programmi . Non vi saranno insomma burocrazie onnipotenti ed eterne.
Nello Dipasquale ha osservato che «oggi si moltiplicano le sigle di associazioni che dicono di agire per nome e per conto della gente, ma è proprio la gente ad essere assente dalla discussione pubblica, sono proprio le persone “in concreto” a non entrare nelle proposte con le quali dovrebbero essere risolti problemi di ogni giorno. Proprio a questa gente si rivolgerà il Movimento utilizzando in primo luogo come tramite gli amministratori comunali,i consiglieri comunali e di quartiere che rappresentano quel tessuto di rappresentanza politica diffusa attraverso il quale si può stabilire un nuovo rapporto tra politica e territorio. Il nemico del consenso libero è il voto di scambio. La raccolta del consenso deve avvenire occupandosi dei problemi di tutti e non dei clienti, avvalendosi del prestigio delle persone che lo chiedono. Solo se le finalità indicate e i modi per raggiungerle saranno convincenti, le persone saranno indotte a impegnarsi in politica. Fare ciò è il nostro dovere».

venerdì 31 agosto 2012

Manifestazione regionale dei Circoli Socialisti a Giardini Naxos (ME)


Lunedì 10 settembreGiardini Naxos (ME), presso l’Hotel Hilton (ex Ramada Inn) in località Recanati, a partire dalle ore 16,00 e fino alle 20,00, si terrà una manifestazione regionale dei Circoli Socialisti sul tema: “Un patto federativo per cambiare la Regione”. Parteciperanno circoli, associazioni e movimenti con i loro rappresentanti. Presiederà il compagno Salvo Andò.

mercoledì 1 agosto 2012

Incontro con Salvo Andò a Catania


I Circoli Socialisti della Sicilia organizzano un incontro/dibattito sul tema:  


Si torni a parlare di Politica!!!
Una discussione politica dopo le dimissioni del Presidente della Regione
   
Venerdì 03 Agosto 2012 – ore 17,00

Hotel Nettuno – Viale Ruggero di Lauria 121, C atania.

  Presiede i lavori l’On. Salvo Andò

martedì 31 luglio 2012

Documento dei Circoli Socialisti di Messina


Non illudiamoci! Non siamo alle battute finali! Restano a disposizione dell’ineffabile governatore della Sicilia ancora lunghi giorni prima di esaurire la merce in magazzino a prezzi di realizzo. Ed intanto è impegnato a saldare il conto a tutti i transfughi ai quali il suo Mpa, vero partito-rifugio, ha dato asilo. A spericolati ed impenitenti trasformisti e sciatti qualunquisti, di volta in volta, sono state aperte, chiuse e/o riaperte le porte come si conviene ad ogni buon padre di… famiglia. E tuttavia, in queste ore di vigilia, capita di vedere coloro i quali non hanno ancora incassato girovagare come “anime dannate” in cerca di altri ospitali lidi. I “gruppi misti” presenti in quasi tutti i consigli comunali della città e della provincia costituiscono il perimetro delle nuove riserve di caccia oggetto di attenzione da parte di tutti i partiti… nessuno escluso. In verità il Pd, stando a notizie di stampa, risulta particolarmente attivo in questa... meritoria attività politica.
Si prevede quindi il rinnovo dell’Ars per il prossimo Ottobre e poiché… noi siciliani siamo particolarmente fortunati si sostituisce qualche mattonella dinanzi ad alcuni esercizi commerciali, si asfaltano autostrade, si collegano “i giunti” per la mobilità urbana ed autostradale, si rappezza la “Fiera Iinternazionale” della città, si nominano nuovi assessori alla Regione (quanto rammarico per il consigliere Foti!), si allarga la rappresentanza dell’esecutivo alla Provincia, a costo zero, come ci assicura il Presidente che è uomo di fede e di verità.
Nei lunghi anni dal 1994 ad oggi tanti di noi abbiamo ritenuto di dovere stare fuori dai partiti che si andavano formando avendo avvertito, per tempo, che il c.d. bipolarismo avrebbe trasformato i partiti in meri contenitori utili a perseguire alleanze per vincere le elezioni ma certo non per governare.
La rivoluzione operata in quegli anni dalla magistratura, di per sé, avrebbe dovuto assicurare la stabilità dei governi, la selezione di una più qualificata e competente classe dirigente ed infine rappresentanti politici lineari, trasparenti ed adamantini.
A consunt ivo possiamo dire che nessuna delle tre ipotesi si è verificata ed oggi per la insipienza, la irresponsabilità, l’incapacità e la modestia della classe dirigente il Paese e la Regione scontano una condizione economica che è in gran parte figlia della loro ignavia. Per il Paese, in verità, le risorse di intelligenze e di competenze lasciano intravedere, sia pure a fronte di notevoli sacrifici, una qualche speranza. Per la Regione si annunciano candidature (almeno quelle già conosciute negli enti locali) di profilo  più che modesto che non sembrano potere alimentare alcuna speranza.
Associazioni, circoli, movimenti, organizzazioni culturali di varia estrazione hanno intensamente operato esercitando, di fatto, un ruolo sostitutivo rispetto alla insopportabile afasia dei partiti. Hanno cioè promosso incontri, dibattiti sui temi della attualità politica, licenziando proposte e progetti che la classe dirigente per incapacità di comprensione ha deliberatamente trascurato. 
Con chi, con quali progetti, con quale classe dirigente saremo costretti ad affrontare la crisi economica della nostra Regione che, rispetto alla stessa questione nazionale, presenta caratteri ancora più acuti nel contesto di un’area di specifica, preoccupante debolezza ?
I comportamenti irresponsabili delle attuali rappresentanze politiche hanno fatto precipitare la nostra società in una condizione di perenne precarietà, di crescente e diffusa illegalità nonché di sostanziale degrado e di inaffidabilità che, a tutti i livelli, investono le strutture pubbliche e gli organismi rappresentativi.         
Un terzo tra condannati ed inquisiti dell’Ars sono il frutto inevitabile di un concezione della politica arroccata a difesa ed a tutela di interessi personali e di fazione perseguiti con criteri puramente familistici.
Oggi viviamo nella trepida attesa di conoscere quanti di questi rappresentanti del popolo siciliano saranno riproposti agli elettori, quali partiti li ospiteranno affinché ciascuno di noi possa esprimere il proprio consenso consapevoli come siamo che non ci si possa o ci si debba privare... “delle loro sperimentate capacità e qualità”.
La rappresentanza regionale della nostra città non è rimasta estranea a tali deprecabili fenomeni; a partire dal 1998 è stata occupata a turno, pesantemente, dai partiti del centro-destra e del centro-sinistra rispetto ai quali è obbiettivamente difficile percepire alcuna differenza nei metodi e nei contenuti di governo. Incapaci di autonome e credibili proposte e progetti operativi, hanno difeso la propria autoconservazione ubbidendo alle pallide figure di taluni colonizzatori delle province romane. Gli uni e gli altri hanno affidato la soluzione dei problemi della città ai “ministri amici” dei “governi amici”, portando in giro il “carro di Tespi” di una progettualità non ancorata a soluzioni credibili e percepibili.
Si avverte la necessità di individuare candidature selezionate sulla base dell’accertato, assoluto rigore sul piano dei requisiti e dei comportamenti se non si vuole condannare, definitivamente, il ruolo delle rappresentanze democratiche ad organismi di torbide mediazioni e veicolo di tutela di interessi di grandi o piccoli gruppi di potere o addirittura di singoli deputati. Sono le stesse parole utilizzate da un noto deputato (anch’egli sotto osservazione) specializzato nel fare passerella in mutande.
Cosa e come fare per interrompere l’attuale fase di stagnazione che, in verità, dura da troppo tempo? E nella nostra città, afflitta da troppi anni da gestioni opache ed inefficienti, cosa è necessario fare per definire percorsi di ripresa percepibili ma soprattutto credibili?
Professionisti, uomini delle istituzioni culturali, imprenditori, giovani che intendono sottrarsi al ricatto ricorrente dei potenti di turno, operatori commerciali che intendono ribellarsi alla violenza di quanti pensano di potere continuare a gabellare i diritti come elargizione di favori, cittadini delle aree periferiche della città rappresentati quasi sempre come masse di manovra e merce per scambi elettorali al ribasso, pensiamo debbano avvertire un forte dovere di cittadinanza non disertando le battaglie e l’impegno per fare risalire la china alla propria città relegata dalla insipienza e dalla ignavia della intera classe dirigente, agli ultimi posti di qualunque graduatoria degli enti locali. Non è più tempo di neutralità da parte di nessuno! Ciascuno deve dismettere la radicata tendenza a fare, sempre, l’arbitro e/o il giudice.                                                  
Le vicende legate alla gestione dei fondi regionali per la “formazione” (storicamente noti come somme sottratte agli investimenti produttivi), hanno visto coinvolti rappresentanti del Pd, del Pdl, del Fli, in una “meritoria” gara a favore di solide prassi per l’emancipazione femminile… riservata ai propri congiunti. Un intreccio di società spesso decotte acquistate grazie anche a notevoli contributi pubblici la cui gestione è rimasta strettamente riservata ai familiari di c.d. leader politici o a sodali politici lautamente gratificati sotto il profilo economico. Quanto pubblicato in un servizio del settimanale “Panorama”, che ha descritto puntualmente i comportamenti dei leader del Pd (Genovese), del Pdl (Buzzanca), del Fli (Briguglio), non è ancora terminato. Restano da comprendere i destini dello Ial (ente di formazione già della Cisl) e dell’Enfap (ente di formazione della Uil) in corso di definizione.
C’è in sostanza un problema grave di legalità! C’è, qui a Messina, un problema gravissimo di moralità pubblica che riguarda le leadership di tutti i partiti in campo. C’è nel Pd un problema enorme di “conflitto di interesse” in settori come l’edilizia, il commercio, le concessioni demaniali, le attività immobiliari, il mercato delle locazioni e che fanno di quel partito il rappresentante effettivo di interessi reazionari e conservatori soprattutto privati. Un partito, ma non è il solo, peraltro, senza particolare cultura di governo, senza capacità di programmazione del futuro e che sicuramente nel suo attuale gruppo dirigente non ha alcunchè da spartire con le ragioni di un maturo, moderno riformismo.
Cronache giornalistiche e notizie di Palazzo ci confermano che una “piccola schiera” di consiglieri comunali di Messina di quel partito sono stati prescelti per “una missione di evangelizzazione” delle tante anime vaganti confluite all’interno dei tanti “gruppi misti” (luogo fisico di stazionamento di tanti peripatetici della politica). Solide e concrete argomentazioni dialettiche ampliano l’area dei convertiti a cominciare da tanti sindaci che si incamminano sulla “via di Damasco”.
Il bipolarismo, a destra come a sinistra, ha assicurato coperture e tutele a tutti costoro ai fini della loro sopravvivenza; il risultato più evidente è dato da evidenti ondate di antipolitica che aggrediscono gli stessi cardini del nostro sistema democratico. Fortunatamente si avvertono segnali di novità in tanti comuni della nostra Sicilia, dove le alleanze tra i partiti tradizionali lasciano il campo alle liste civiche. A Ragusa come ad Agrigento, a Barcellona Pozzo di Gotto come a San Pier Niceto, solo per citarne alcuni tra i tantissimi, gli amministratori sono espressione di nuovi gruppi dirigenti.
A sinistra si avvertono segnali di stanchezza e di disaffezione alimentati dallo stato confusionale e dalle divisioni tra i numerosi gruppi interni al Pd regionale che persegue e forse consuma ipotesi di alleanze senza percepibili e apprezzabili progetti politici.
Non sono certo apprezzabili i silenzi dei tanti gruppi e gruppetti di certa sinistra sempre pronta alla esecrazione per i comportamenti non lineari o le malefatte, come amano chiamarle, quando riguardano altre parti politiche, mentre vengono afflitti da gravissimi traumi di afasia quando si tratta di guardare in casa propria.
Un numero considerevole di associazioni e di movimenti hanno alimentato il dibattito ed il confronto nella nostra città. Associazioni come “L’altra città”, la Lega per le autonomie locali, Oikos, “L’altro futuro”, il Movimento dei pendolari nello Stretto, Officina delle idee per Messina, i Circoli Socialisti, Giustizia e libertà, il circolo “Il risveglio” e, di recente, Reset, dopo un lungo percorso di riflessione e di coinvolgimento democratico effettivo sono riuscite, ,assieme a tante altre, ad elaborare, sia pure in autonomia, i contenuti di una nuova, concreta lettura della nostra città, avanzando puntuali proposte per tentare di superare l’attuale stagnazione e la drammatica regressione nella quale ci troviamo. L’auspicio che vorremmo formulare è che tutti insieme possano riuscire a determinare intese per “scacciare i mercanti dal tempio”, offrendo alla Città la possibilità di scegliere una classe dirigente del tutto nuova ed impegnata, al di sopra di strumentali ideologizzazioni, a proporre pragmaticamente soluzioni  ai problemi del nostro territorio. Sotto questo profilo abbiamo ragione di ritenere che nuovi soggetti della borghesia delle professioni abbiano il dovere di superare neutralità e perbenismi, tante volte interessati, e proporsi con ritrovata passione civile per il riscatto della nostra città. Insieme ai tanti giovani come quelli incontrati in questi anni, a cominciare dagli studenti delle ultime classi delle scuole medie superiori, bisogna riuscire a predisporre liste civiche in occasione delle prossime elezioni comunali per partecipare ad una battaglia di civiltà, con l’obiettivo di sostituire gli attuali personaggi che da più di trent’anni affliggono le nostre istituzioni.
per i Circoli Socialisti di Messina
GIUSEPPE MAGISTRO
FRANCESCO BARBALACE

lunedì 18 giugno 2012


Lunedì 25 giugno a Messina, presso il Monte di Pietà (via XXIV Maggio) si terrà un dibattito su “Costruire la politica che non c’è”. Interverranno Gennaro Acquaviva, Girolamo Cotroneo  e Salvo Andò.


La Fondazione Nuovo Mezzogiorno e la Rete dei Circoli Socialisti hanno promosso, negli ultimi anni, numerosissime occasioni di confronto e di dibattito a fronte della persistente afasia di Pdl, Pd ed Udc.
Gli schieramenti di destra e di sinistra, grazie anche all’attuale bipolarismo ed alla caratterizzazione leaderistica dei singoli partiti, hanno potuto realizzare intese ed alleanze solo di natura elettoralistica e non certo una solida governabilità contribuendo, tra l’altro, ad eliminare dalla rappresentanza politica del Paese i grandi filoni ideali e culturali che dal dopoguerra in poi ne avevano assicurato la ricostruzione e la crescita.
Siamo oggi di fronte a questo scenario:
– abdicazione della politica;
– pesante aggravamento dei problemi dello sviluppo, della occupazione e del welfare;
– un sistema elettorale che non garantisce la governabilità del sistema politico, che espropria gli elettori del diritto costituzionale di scelta degli eletti e che prefigura meri cartelli elettorali e non alleanze di governo.
Autorevoli sondaggisti ci dicono che circa un terzo dei cittadini italiani considera la politica poco credibile se non addirittura privatizzata mentre il 48% di essi ritiene addirittura che la democrazia italiana possa vivere senza i oartiti.
A fronte di tale scenario spetta ai rappresentanti del cattolicesimo riformatore, del socialismo egualitario, del laicismo liberale e repubblicano il compito di ricostruire le basi per rinnovare le ragioni e l’esperienza umana e sociale di una nuova sinistra democratica, guardando, sotto il profilo organizzativo, a convergenti forme di presenza politica.
FRANCESCO BARBALACE

sabato 7 aprile 2012

Non bastano i bilanci trasparenti, ma anche attività politica

da “La Sicilia” del 7 aprile 2012





Lo scandalo che ha coinvolto il tesoriere della Lega, Belsito, a poche settimane di distanza dall’altra vicenda che ha riguardato il vicepresidente leghista del Consiglio regionale lombardo, Boni, aveva prodotto nei giorni scorsi grande sconcerto tra i militanti leghisti che vedevano ancora una volta infranto il mito del partito padano incorruttibile. Le dimissioni irrevocabili di Bossi, adesso, paiono destinate non solo a creare un terremoto nel Carroccio, ma ad assestare il colpo di grazia a un sistema politico già in stato di avanzata decomposizione.

Il fatto che vengano sottratti al partito soldi destinati all’attività politica per finanziare spese personali dei dirigenti o delle loro famiglie – si tratta di una prassi che si può definire consolidata, tenuto conto di quanto emerso a seguito di un altro scandalo che ha coinvolto Lusi, il tesoriere della Margherita – nella considerazione generale pare ancora più grave di un «normale» fatto di corruzione. Non c’è da sorprendersi, quindi, di fronte al rifiuto che il Paese manifesta nei confronti del sistema dei partiti nella sua interezza, come ha avuto modo di rilevare attraverso un recente sondaggio il professor Mannheimer, sottolineando che tutti i partiti sono oggetto nella stessa misura della disistima popolare. Solo cinque elettori su cento hanno ormai fiducia nei partiti.

Queste vicende sono rivelatrici, in primo luogo, della diversa natura che è venuto assumendo il partito nel sistema politico italiano. Esso non costituisce più un bene pubblico ma una proprietà privata, di cui il leader e il tesoriere, che è l’uomo di fiducia per eccellenza del leader, hanno la titolarità esclusiva. Siamo di fronte ad un fenomeno nuovo, il partito patrimoniale.

In un momento in cui il Paese affronta sacrifici molto seri che colpiscono soprattutto le classi più disagiate, il fatto, certo tutto da dimostrare, che i soldi versati dallo Stato ai partiti possano servire per fini diversi dall’attività politica costituisce la conferma che la crisi della politica in Italia sia giunta ormai a un punto di non ritorno.

Di fronte a questi fatti non si può fare meno di pensare, con grande nostalgia, alla storia dei vecchi partiti che hanno fatto la Repubblica, i quali potevano contare su un esercito di volontari che regalavano al partito in un anno centinaia di ore di lavoro, all’orgoglio dell’appartenenza dei militanti che facevano le collette per tenere in ordine la casa del partito, alle mille attività sociali che i partiti erano in grado di promuovere, quando ancora non c’era il finanziamento pubblico, attraverso l’autofinanziamento che costituiva una voce importante nel bilancio anche di quei partiti che ricevevano finanziamenti dall’estero. Tutto ciò era rivelatore dell’esistenza di una comunità politica che il partito organizzava, e di un rapporto tra vertice e militanti basato su sentimenti di fiducia e solidarietà. Lo straordinario potere conseguito da partiti così organizzati era tutto sommato giustificato, se si pensa che ciascuno di essi, sulla base di una visione condivisa del bene comune, portava dentro le istituzioni istanze destinate a dare vita a legami sociali sempre più estesi in un Paese che non aveva grandi tradizioni democratiche. Già per questa capacità di politicizzare la società italiana, quei partiti meritavano il potere che riuscivano a esercitare.

I partiti di oggi certamente non hanno meno potere, ma esso viene devoluto a una nomenclatura sempre più ristretta, che non ha alcun rapporto con comunità politiche organizzate, per il semplice fatto che tali comunità non esistono più. È rimasta insomma in piedi la partitocrazia, ma non ci sono più dei veri partiti, ci sono tifoserie e clientele da tenere insieme.

È vero che dopo gli anni gloriosi dei partiti impegnati a rifare l’Italia si sono avute stagione meno gloriose, che i partiti della prima Repubblica avevano via via perduto molta della loro credibilità, costretti com’erano a vivere ricorrendo a finanziamenti illeciti per tenere in vita apparati elefantiaci e costosi. Essi avevano quasi sempre i conti in rosso presso le banche, perché oberati dai debiti contratti anche per organizzare la presenza nel territorio attraverso sezioni, associazioni collaterali, circoli culturali, federazioni; molte di quelle sedi erano di proprietà dei partiti e i militanti andavano orgogliosi di quegli investimenti. Sono stati commessi degli errori, anche gravi, per far fronte ad un andamento della spesa che ormai non si riusciva più a tenere sotto controllo, e i dirigenti politici di allora hanno pesantemente pagato per quegli errori. Ma l’attività di partito c’era e si vedeva, tant’è che coloro che hanno promosso le campagne dell’antipolitica, con in testa la Lega, spiegavano che i partiti facevano troppa attività di informazione e di propaganda, che erano troppo invadenti, che in una società evoluta come quella italiana non c’era più bisogno dei partiti per sapere quali strade percorrere per realizzare le necessarie trasformazioni sociali.

Ebbene, anche negli anni del tramonto della prima Repubblica non è mai accaduto che si facesse ricorso alla cassa del partito per pagare i lussi privati del gruppo dirigente. Citaristi, Balzamo, gli altri tesorieri dei partiti sono stati messi sotto inchiesta da tutte, o quasi, le procure d’Italia, ma sull’onestà personale di essi nessuno ha avuto nulla da eccepire allora, neppure i magistrati. 

Tenuto conto di ciò, adesso non si tratta di auspicare il ritorno ad un passato che non può tornare, ma semplicemente di qualificare come sprechi le risorse pubbliche destinate ad attività politiche che non si fanno, o che vengono addirittura usate per speculazioni finanziarie sulle valute estere (pare che la Lega investisse in Tanzania e Norvegia). Così come è uno spreco finanziare giornali di partito che nessuno legge.

I partiti di oggi costano meno perché non hanno un insediamento territoriale vero, perché sono partiti romanocentrici, perché sono insomma partiti rinsecchiti attorno ad un apparato centrale che decide tutto, senza che vi sia una gestione collegiale. La cassa dei partiti può essere facilmente saccheggiata anche per questa ragione.

Vi sono troppi partiti personali in cui decide uno solo, non soltanto con riferimento ai deputati da nominare, ma anche con riferimento alla gestione delle risorse. Una volta il tesoriere del partito era un dirigente ben noto alla base del partito, non era una personalità occulta, un fiduciario del leader che non rendeva conto a nessuno, tranne appunto che al leader. Da tempo ormai questo non accade più. La gestione finanziaria dei partiti segue modelli che si addicono più ad una azienda privata che ad un’associazione politica. E però, avere dei partiti privatizzati che vengono pagati con i soldi del contribuente costituisce un abuso insopportabile. Adesso, dopo quello che è successo, si farà una nuova legge sul finanziamento pubblico, come si è sempre fatto quando si sono scoperte anomalie gravi o gravissime nel sistema dell’approvvigionamento finanziario dei partiti. Stavolta, l’anomalia riguarda i soldi del finanziamento pubblico non spesi o spesi per finalità indecenti, dei quali, così ci si spiega, all’interno dei partiti coinvolti in queste vicende nessuno sapeva nulla. Per rimuovere questa situazione di opacità che riguarda tutta la vita interna dei partiti, occorrono riforme strutturali da fare con legge, e non solo autoriforme. Non basta pretendere bilanci più trasparenti e una certificazione delle spese più attendibile. Occorre cambiare le forme del sostegno finanziario assicurato dallo Stato ai partiti al fine di promuovere la partecipazione politica, dando più servizi, anche nel territorio, e meno soldi. E occorre che i bilanci dei partiti siano approvati in modo meno clandestino. Se i soldi dati ai partiti sono soldi di tutti, è giusto che tutti sappiano chi li spende e per fare che cosa.


SALVO ANDÒ

mercoledì 4 aprile 2012

Cambiare le regole per ricreare la fiducia nella politica

da “La Sicilia” del 4 aprile 2012



Pare che, finalmente, la maggioranza che sostiene il Governo Monti sul tema della legge elettorale voglia fare sul serio. Circola, già da qualche giorno, una bozza contenente le linee generali della nuova legge, concordata tra i segretari dei partiti. L’iter parlamentare, considerate anche le raccomandazioni venute dal Presidente della Repubblica, dovrebbe risultare abbastanza celere. I precedenti, tuttavia, inducono alla prudenza. Basti pensare al nulla di fatto a cui è approdata, quando si pensava che tutto fosse già deciso, la Commissione bicamerale presieduta da D’Alema. Anche stavolta qualche partito potrebbe essere tentato di fare saltare il tavolo delle riforme, per mettere in difficoltà il governo tecnico e determinare così la fine della legislatura. Si tratterebbe, tuttavia, di un atto irresponsabile, che spingerebbe i partiti verso un vicolo cieco. 
Se ciò dovesse accadere, si verrebbe a creare una situazione politica ancora più difficile di quella verificatasi all’inizio degli anni 90.
Anche allora ci si trovava di fronte ad una classe politica pesantemente delegittimata. Le riforme istituzionali certamente avrebbero favorito il rinnovamento dei partiti, venendo incontro ad una domanda di cambiamento che era molto forte nel paese. Una maggioranza di governo frantumata al proprio interno ed un governo che veniva battuto sistematicamente in Parlamento non furono in grado di interpretare l’insofferenza del paese, e di capire che una slavina stava per travolgere l’intero sistema politico. Le riforme non si fecero anche perché si pensava, soprattutto all’interno della Dc, che le inchieste giudiziarie ed il dissesto istituzionale avrebbero distrutto questo o quel partito, questo o quel leader, e non tutto il sistema dei partiti. Soprattutto le opposizioni ritennero di poter trarre vantaggio da questo stato di cose.
Oggi la crisi dei partiti appare meno eclatante, in conseguenza della tregua politica intervenuta grazie alla formazione del governo tecnico, che ha potuto contare sull’incondizionato sostegno del Presidente della Repubblica. Alcuni provvedimenti del governo sono potuti passare in Parlamento per la paziente opera di mediazione svolta da Napolitano, che ha saputo compattare la maggioranza in Parlamento tutte le volte in cui questa rischiava di sfasciarsi.
Ebbene, in questo contesto, i provvedimenti necessari per il risanamento democratico devono ritenersi non meno necessari ed urgenti di quelli che riguardano il risanamento economico.
Sappiamo chi non vuole le riforme. Non le vogliono le opposizioni, soprattutto i partiti di Di Pietro e Vendola, ma non li vogliono neppure alcuni settori della maggioranza. Tutti auspicano a parole una legge meno indecente del “porcellum”, ma quando si entra nel merito della nuova legge elettorale, si sollevano eccezioni e cavilli, quasi irrisolvibili. Lo scopo evidente è quello di andare a votare alle politiche con l’attuale legge.
Alcuni malpancisti si dicono preoccupati per gli scompensi che una nuova legge elettorale potrebbe provocare sull’assetto bipolare, presentato come la più grande conquista regalataci dalla seconda Repubblica. Se il vincolo di coalizione dovesse allentarsi
– si osserva – c’è il rischio che i partiti si sentano liberi di fare in Parlamento le alleanze che vogliono, pregiudicando così la stabilità politica.
In verità, durante i quasi vent’anni di vita della cosiddetta seconda Repubblica, di stabilità politica se n’è avuta ben poca. Né il bipolarismo ha ridato alla rappresentanza politica il prestigio perduto. Anzi. Siamo di fronte ad un degrado della vita politica che non ha precedenti nella storia della Repubblica. Se la questione morale ieri costituiva un macigno sulla strada di un recupero di credibilità del sistema dei partiti, oggi quel macigno è diventato una montagna.
Chi difende il bipolarismo prodotto da una legge elettorale coercitiva
– perchè impone ai maggiori partiti di allearsi con chicchessia pur di incassare il premio di maggioranza
–, difende soprattutto il proprio potere di interdizione; un potere che è stato utilizzato in modo spregiudicato in questi anni.
Basti pensare alle frequenti crisi di governo, che hanno prodotto tra l’altro legislature brevi e brevissime. Ma non solo. Le alleanze fatte in stato di necessità, perché imposte dalla legge elettorale, hanno favorito il trasformismo politico, con una diffusione del fenomeno nei due schieramenti senza precedenti, tant’è che il gruppo misto, fatto prevalentemente da transfughi, è divenuto uno dei gruppi parlamentari più consistenti.
Chi oggi si erige a difensore del bipolarismo all’italiana, oggettivamente difende questo stato di cose.
Una diversa legge elettorale, invece, che consenta ai partiti di presentarsi agli elettori con una precisa identità, senza che sia necessario fare delle alleanze che tengono fino al giorno del voto e si sfasciano poi il giorno dopo, potrebbe portare ad una rigenerazione dei partiti, ad un loro migliore radicamento nel territorio, alla ricostituzione di un “popolo di riferimento” di ciascun partito che in questi anni, a causa anche del bipolarismo coatto, si è disperso. Ridare al popolo la possibilità di eleggere i propri rappresentanti costituisce una condizione essenziale per una rivalutazione della rappresentanza politica.
La nuova legge elettorale, quindi, va approvata presto, magari aprendo contestualmente il cantiere delle riforme istituzionali, che richiedono ovviamente tempi di approvazione più lunghi di quelli che richiede una legge ordinaria. 
Se dovessero registrarsi delle difficoltà esse vanno affrontate e risolte, potendo anche confidare sull’aiuto del Presidente Napolitano. Non ci sono strade alternative.
C’è chi pensa di regolare per legge le primarie, per tenere in vita il porcellum imponendo ai partiti di scegliere in modo trasparente i candidati. Ma si tratterebbe di un rimedio del tutto inefficace, oltre che tecnicamente difficile da realizzare. Non si risolverebbero così i problemi prodotti dalla ingovernabilità e dalla crisi della funzione di rappresentanza. Convocare, poi, centinaia di elezioni primarie, tante quanti sono i seggi da assegnare, provocherebbe il caos. Le primarie hanno un senso in un vero sistema bipolare; e il sistema politico italiano non è tale. Avremmo dei contenziosi dentro i partiti non risolvibili, se non per la via giudiziaria. Avremmo insomma un’infinità di casi Palermo.
Si scelga un modello elettorale di riferimento, lo si adatti alle tendenze politiche del paese, di un paese ove prevale il voto moderato, si evitino i premi di maggioranza se non nel caso del conseguimento della maggioranza assoluta viste le pessime prove date dai premi di maggioranza fin qui sperimentati. Si scelga magari tra premio di maggioranza e soglia di accesso, considerato che due premi paiono davvero troppi, e si riconosca un diritto di tribuna ai partiti più piccoli riservando loro una quota di seggi. 
Se dovessero prevalere coloro i quali vogliono che tutto resti così com’è, i partiti sarebbero oggetto di una contestazione popolare molto forte. L’opinione pubblica non potrebbe non prendere atto del fatto che le decisioni che riguardano il risanamento dei conti pubblici, con sacrifici connessi, vengono prese sulla base di una tempistica stabilita dal governo, mentre le decisioni che riguardano la qualità della vita democratica, l’efficienza delle istituzioni, richiedendo il consenso dei partiti, si possono rinviare sine die.

C’è una tendenza nel paese all’autorappresentanza politica. Sono ormai frequenti le mobilitazioni di masse di cittadini che assediano i palazzi del potere, chiedendo prestazioni o esercitando veti sulle decisioni che si vanno assumendo. Una buona legge elettorale, che non sia espressione di una logica partitocratica, di per sé, non può mettere ordine, da un giorno all’altro, in un paese che appare politicamente tanto disordinato. Essa può costituire, tuttavia, un segnale importante perché si ricrei, intorno alle istituzioni della rappresentanza politica, un clima di fiducia.

SALVO ANDÒ

venerdì 16 marzo 2012

Moro e la sacralità della vita

da “La Sicilia” del 16 marzo 2012




Il testo qui pubblicato nel giorno dell’anniversario del rapimento di Aldo Moro, avvenuto in via Fani il 16 marzo 1978, contiene passi della relazione svolta da Salvo Andò in occasione della presentazione del volume: “Moro nella storia contemporanea” (a cura di Francesco Perfetti e altri), svoltasi nei giorni scorsi a Roma nella sala del Refettorio della Camera dei deputati.

I cinquantacinque giorni del sequestro Moro sono stati, senza ombra di dubbio, i giorni più drammatici della storia della Repubblica. Mai lo Stato è apparso così debole, così indeciso sul da farsi di fronte ad una grave emergenza. Forze dell’ordine e apparati di sicurezza impegnati nelle indagini furono mobilitati in modo massiccio senza raggiungere alcun risultato pratico. Le lettere che Moro inviava dalla “prigione del popolo”, che contenevano, in forma criptica ovviamente, informazioni utili per potere scoprire il luogo di detenzione furono oggetto di interpretazioni superficiali e fuorvianti. Il governo non apparve mai in grado di intraprendere un percorso che potesse portare alla liberazione dell’ostaggio. Quotidianamente, decideva di non decidere. I partiti, a loro volta, si divisero in due schieramenti, quello della trattativa e quello della fermezza, polemizzando tra di loro, scambiandosi accuse di irresponsabilità e di cinismo.
In un clima avvelenato da paralizzanti impuntature ideologiche, non era pensabile che si potessero aprire spazi utili per un dialogo anche a distanza con le Br. Ma non solo. Moro fu rappresentato di fronte all’opinione pubblica, anche da alcuni settori del suo stesso partito, come un uomo disposto a tutto, anche a pretendere la capitolazione dello Stato, pur di salvare la propria vita e garantire il futuro della sua famiglia. 
In quelle terribili giornate fu, oggettivamente, distrutta sia la statura morale dell’uomo che la figura dello statista, che per trent’anni era stato alla guida del governo, del partito e del gruppo parlamentare della DC.
Si disse che il Moro che scriveva dal carcere non fosse il vero Moro, che le cose che diceva erano scritte sotto dettatura dei terroristi; alcuni addirittura presentarono Moro come un prigioniero che interloquiva con i sequestratori non per fare esplodere le contraddizioni che c’erano all’interno dell’organizzazione terroristica – perché, così come è venuto fuori anche in occasione dei processi, dentro le Br c’era uno scontro tra una linea della fermezza ed una posizione trattativista –, ma come un uomo quasi disposto ad assecondare il processo che si faceva nei confronti della Dc. Moro nelle sue lettere chiedeva una «iniziativa umanitaria» a suo favore da parte dello Stato, perché convinto che dovere prioritario dello Stato fosse quello di salvare una vita umana.
Va rilevato che questa concezione sacra della vita umana scaturiva dalla sua profonda fede cattolica, dalla lealtà ai valori costituzionali, nonché dai principi che stavano alla base del sistema penale che aveva studiato fornendo contributi magistrali sul piano dottrinale.
Val la pena di ricordare che c’è una continuità di pensiero in questo senso tra il Moro studioso, il Moro politico e il Moro prigioniero delle Br.
Egli ricorda ai suoi interlocutori, soprattutto a quelli della sua parte politica, qual è la natura dello Stato e quali doveri ineludibili discendano da essa. Il pensiero filosofico di Moro è ben sintetizzato nelle dispense, poi pubblicate in volume, destinate agli studenti del corso di filosofia del diritto che nell’anno accademico ‘42–’43 egli teneva presso l’università di Bari. La sua idea che lo Stato non è solo forza, ma è forza coniugata a giustizia, fu efficacemente sviluppata anche attraverso gli interventi svolti all’assemblea costituente.
Il dovere di vivere di cui parla nelle lettere è lo stesso dovere di vivere di cui parlava nelle sue lezioni baresi, discutendo del valore della persona umana, ed esponendo quindi la sua concezione umanistica dello Stato. E’ muovendo da questa visione dello Stato e della libertà che egli, in una lettera della fine di aprile, indirizzata alla famiglia, afferma: «Ma da cosa si può dedurre che lo Stato va in rovina se, una volta tanto, un innocente sopravvive e, in compenso, un’altra persona va, invece che in prigione, in esilio? Il discorso è tutto qui». Si tratta di affermazioni che non gli venivano suggerite dalle Br, ma dalla sua formazione intellettuale e dalla sua fede cristiana. È la risposta a quanto si chiedeva Andreotti in televisione: «Quale sarebbe la reazione dei carabinieri, dei poliziotti, degli agenti di custodia se il governo, alle loro spalle, violando la legge, premiasse chi ha fatto scempio della legge stessa? E che cosa direbbero le vedove gli orfani, le madri di coloro che sono caduti nell’adempimento del proprio dovere?». Era facile replicare al Presidente del Consiglio che con il sacrificio di Moro certamente non si ridava la vita a coloro che erano stati uccisi dai brigatisti, e che non poteva essere motivo di conforto per le famiglie delle vittime sapere che Moro aveva fatto la stessa fine. (...)
A Moro sono state attribuite volontà, disegni che paiono assai lontani dal suo modo di vedere il futuro della democrazia italiana. Si è detto che l’Italia, con Moro vivo, avrebbe conosciuto un lungo periodo di tregua politica con Dc e Pci associati al governo.
Ciò non rispondeva affatto ai disegni di Moro, come è stato autorevolmente dimostrato da tanti studiosi, e soprattutto da Craveri.
Moro non era attratto dai comunisti sul piano ideologico certamente, né condivideva le scelte compiute dal partito comunista, sino agli anni 70, con riferimento alla politica europea, alle politiche sociali (avevano avversato le riforme del centro sinistra guidato da Moro), all’affermazione, anche da parte di Berlinguer, di una presunta superiorità del modello comunista rispetto a quello socialdemocratico, al metodo seguito per far opposizione criminalizzando l’avversario. Il processo alla Dc, in questo senso, era un’idea fissa nella cultura di quel partito (cultura questa che terrà campo fino al processo Andreotti). Moro registra con soddisfazione i cambiamenti intervenuti nel partito comunista con riferimento alla riconosciuta utilità dell’alleanza atlantica e alla presa di distanza dal regime sovietico da parte di Berlinguer, che tuttavia riconosceva ancora negli anni 70 la vitalità del modello sociale comunista. 
Moro è convinto che una tregua col partito comunista serva alla democrazia cristiana per riorganizzare il proprio insediamento sociale, considerato che, a partire dagli anni 70, esso pareva essere ormai in crisi, ma soprattutto per fare fronte a forme esasperate di conflittualità sociale. Riteneva di dover vincere le resistenze della Dc per facilitare, attraverso le riforme, una integrazione effettiva delle masse nel processo di crescita democratica. (...)
La sfida con la sinistra andava ingaggiata affrontando la questione sociale in termini diversi da quelli attraverso i quali ci si era rivolti al paese nei primi anni della ricostruzione. Rifiutare il governo con i comunisti non significava ignorare ciò che rappresentavano le masse che quel partito organizzava politicamente.
Egli esortava il suo partito a non minimizzare il pericolo di un fascismo che si potesse esprimere in altre forme e quando, come ricorda Scoppola, la destra Dc pareva favorevole ad una apertura verso il movimento dell’“uomo qualunque”, Moro si oppose fermamente, non per ragioni di tattica politica, ma per ragioni che attenevano alla sua concezione dell’impegno dei cattolici in politica, convinto com’era che alla base di esso vi dovesse essere una forte ansia di moralità. 
«L’esperienza politica – scrive Moro sulla rivista Studium nel 1945 – …si nutre del pensiero libero… Della suprema e nobile fatica di essere se stessi… L’uomo qualunque non è appunto se stesso, è altri da sé, disposto a tutto pur di conservare quella sua quiete che è una terribile perdita, la perdita dell’umanità…».
È ingiusto ritenere che Moro fosse vocato alla mediazione, patteggiando con tutti su tutto, indifferente a quei principi che danno moralità alla politica. Non ha mai pensato di patteggiare con le Br rivelando segreti che potessero nuocere al suo partito e allo Stato. Non ha pensato mai all’accordo con il partito comunista come ad un compromesso storico destinato ad annullare le differenze che rendevano Dc e Pci partiti tra loro alternativi, una volta realizzato un regime di democrazia compiuta. (…)
Certamente parlò a lungo nel carcere del popolo alle Br senza concedere, però, ai suoi sequestratori alcun vantaggio. Egli cercò attraverso il dialogo di piegare ai suoi fini le Br, ma non vi riuscì perché lasciato solo da chi aveva il dovere di aiutarlo.

SALVO ANDÒ

mercoledì 7 marzo 2012

Occorre ricucire un rapporto diretto fra Paese e governo

da “La Sicilia” del 7 marzo 2012



Il governo tecnico con il suo decisionismo ha reso ancora più evidente l’inadeguatezza degli assetti politici con cui il Paese ha dovuto fare i conti in tutti questi anni.
 Tanti, all’inizio, hanno visto in Monti un personaggio alternativo ai partiti della seconda Repubblica, e nel governo tecnico una sorta di governo dell’antipolitica. Così non è stato, perché lo stesso presidente del Consiglio ha più volte spiegato che alla fine del suo mandato l’iniziativa politica va restituita ai partiti.
C’è da chiedersi, però, come sarà il partito nuovo, e soprattutto come sarà selezionata la sua classe dirigente. Man mano che l’attuale governo si consolida, e i suoi orizzonti temporali si allungano, sono sempre più numerosi coloro i quali prevedono che le personalità oggi al governo potrebbero garantire una tranquilla transizione verso una nuova Repubblica, espressione di un rapporto rifondato tra la gente e la politica. In questo contesto, alcuni membri di questa compagine ministeriale potrebbero costituire il nucleo di una nuova classe politica, destinata ad operare in un sistema politico assai diverso da quel bipolarismo cosiddetto muscolare che tanti guasti ha prodotto nel corso di quasi un ventennio, e che appariva già clamorosamente fallito prima ancora che si insediasse il governo dei professori.
Oggi il governo si trova di fronte a scelte che richiedono una discussione pubblica che risulti davvero coinvolgente, perché si tratta di scelte che incideranno sulla stessa struttura sociale del paese. Non si può passare dai tagli alle misure finalizzate alla crescita, senza interrogarsi sul tipo di società che si vuole. La discussione pubblica su temi così impegnativi – bisogna mettersi d’accordo su come rifare l’Italia – ha bisogno di partiti che esprimano una precisa identità culturale, che abbiano programmi ed obiettivi chiari. Occorre stabilire un rapporto più diretto tra il governo e il paese, sapere ascoltare non solo i vertici delle diverse categorie, ma anche la gente comune.
 È questa un’attività nella quale l’attuale personale di governo, nella fase due dell’opera di risanamento, dovrà con convinzione impegnarsi, proprio per fugare il sospetto che i poteri forti abbiano una corsia privilegiata per arrivare al governo e condizionarne le decisioni.
 Questo sforzo pare ancora più doveroso, se si considera che all’interno della squadra di Monti si manifesta, magari in modo non esplicito, da parte di taluni ministri la disponibilità a scendere in campo per fare politica con i partiti che ci sono o con i futuri partiti dei quali si discorre. E sarebbe un bene per l’Italia che personaggi, finora apprezzati per competenze professionali e onestà personale, scelgano in prospettiva l’impegno politico a tempo pieno.
Questo Paese potrà essere finalmente un Paese normale se i sacrifici, che esso ha affrontato e dovrà ancora affrontare, serviranno non soltanto per rimettere a posto i conti pubblici, ma anche per ricostruire un robusto tessuto democratico. Se il governo saprà operare in modo tale da favorire questo tipo di riconciliazione fra paese e politica, esso sarà ricordato a lungo come il governo della rinascita italiana.
I partiti in questi mesi hanno fatto a gara per dimostrare lealtà nei confronti di Monti e per sostenerne in modo efficace l’azione, ma hanno anche dimostrato una totale assenza di strategia per uscire dalla crisi di rappresentanza che li ha colpiti. Parlano di riforme istituzionali e soprattutto di una nuova legge elettorale come di impegni ineludibili, ma paiono poco disponibili a cedere qualcosa sul terreno del potere che hanno conquistato grazie ad una legge elettorale che ha stravolto alcuni caratteri fondamentali di una autentica vita democratica.
Si tratta peraltro di partiti che continuano a navigare a vista, che vogliono una cosa oggi, per poi disvolerla il giorno dopo. Basti ricordare i giudizi sprezzanti del centrodestra su questo governo, presentato come il risultato di un’operazione quasi golpista. Ebbene, dalla stessa parte politica, oggi si auspica che l’attuale governo possa proseguire la propria opera anche nella prossima legislatura.
Monti finora ha avuto buon gioco nel rivendicare piena autonomia nei confronti dei partiti e delle parti sociali, ascoltando il loro punto di vista e, però, decidendo poi sulla base di priorità ritenute inderogabili. La mediazione, insomma, non è stata estenuante e sterile, anche se qualcosa su questo terreno inevitabilmente comincia a cedere . Il governo ha preso atto in più occasioni del fatto che partiti e parti sociali, più le seconde che i primi, sono restii ad accettare un’azione di rinnovamento che metta a rischio consolidate rendite di posizione. Il presidente del Consiglio ha spiegato che, comunque, intende portare avanti il suo programma fino al giorno in cui non tornerà alle sue vecchie occupazioni. E su questo terreno può contare sulla indiscutibile solidarietà di tutti i suoi ministri, anche di quelli che, finita questa esperienza del governo tecnico, dovrebbero scegliere in via definitiva l’attività politica. Del resto, più dura questo governo in carica e più l’impronta tecnocratica, che lo connotava all’inizio, tende a sbiadire.
La possibilità che personalità del mondo delle imprese e delle professioni scelgano la politica in pianta stabile non può che dare maggiore qualità alla vita politica, a condizione che costoro sappiano inserirsi in un sistema di partiti profondamente rinnovato, che diventino dirigenti politici veri, e quindi indisponibili ad offrire i propri servigi a qualunque maggioranza, che si diano da fare per rendere più competitivo il sistema paese e per garantire una crescita che abbia basi stabili, e che siano fermamente convinti che per l’economia valgono ancora i vincoli posti nel secolo passato dalle costituzioni democratiche. È accaduto in Spagna, è accaduto in Francia, ed anche in altri paesi,che dei bravi tecnici siano diventati non solo ottimi uomini di governo ma anche buoni dirigenti di partit; ciò potrebbe accadere anche in Italia.
Conclusosi il ciclo berlusconiano, con l’uscita di scena del Cavaliere, la cui figura ha caratterizzato l’intera vicenda della seconda Repubblica, non è pensabile che tutto il resto dell’universo politico rimanga uguale a se stesso, come se niente fosse avvenuto. Occorrono nuovi leader sia sul versante del centrodestra che su quello del centrosinistra. Ed occorre che anche in Italia si ricreino partiti o aggregazioni tra partiti che in qualche modo siano riconducibili, per i loro connotati culturali, alle tradizionali famiglie politiche europee. Finora l’Italia da questo punto di vista è stata un’anomalia, e di ciò non c’è certo da menare vanto.
Per cambiare i partiti occorre cambiare le persone. L’esperienza dei nuovi sindaci, candidatasi spesso a dispetto dei partiti, in questo senso dovrebbe insegnare qualcosa . Purtroppo, in questi ultimi vent’anni sono cambiati i partiti, nel nome e nei simboli, si sono avute svolte revisioniste a getto continuo, ma non sono cambiati i criteri di selezione del personale politico, e quindi le persone che nei partiti comandano. Fuori dall’Italia, invece, accade la cosa opposta; cambiano i leader in base alle alterne fortune dei partiti, ma non cambiano i partiti
.

SALVO ANDÒ

domenica 26 febbraio 2012

Per risolvere la crisi della politica e rafforzare la democrazia

da “La Sicilia” del 26 febbraio 2012



Finalmente qualcosa si muove sul terreno delle leggi elettorali e delle riforme istituzionali. Ma non solo. Pare che i leaders della maggioranza vogliano affrontare anche la questione della riforma dei partiti, perché sia concretamente garantito quel metodo democratico che, per il costituente (art 49), doveva essere la regola fondamentale a cui essi dovevano attenersi. C’è un’evidente relazione tra il deficit di democrazia che si registra all’interno dei partiti e la scadente qualità democratica del sistema istituzionale, tra la delegittimazione dei partiti e la delegittimazione del Parlamento.
In questo senso, gli scandali che hanno riguardato in questi mesi la gestione del finanziamento pubblico costituiscono solo la punta dell’iceberg. Queste risorse sono state a suo tempo pensate per promuovere la partecipazione politica, e non come una provvista «privata» a disposizione dei segretari e dei tesorieri dei partiti.
Siamo di fronte ad una crisi economica che sta comportando pesanti sacrifici per la stragrande maggioranza dei cittadini, che giustamente pretendono un’equa ripartizione dei sacrifici. Questo principio vale per tutte le categorie sociali, ma dovrebbe valere soprattutto per i partiti. Si tratta di assumere decisioni ragionevoli, ancorché necessitate, e soprattutto di sapere ascoltare il Paese, considerato che la voglia di discutere pare prevalere, a differenza che in passato, sulla voglia di forca. Il rapporto che si va stabilendo tra governo e popolo dimostra che la gente sa distinguere, che non fa di tutti i politici un fascio.
Ci sono, quindi, le condizioni per una rinascita della politica e dei partiti. Non è vero che nelle cosiddette società postdemocratiche sono rifiutati i partiti in quanto tali, e preferite forme di democrazia plebiscitaria. E’ ben vivo nella memoria l’entusiasmo suscitato dalle primarie in Italia, quando si gettavano le basi per fare il Pd. I partiti sono rifiutati quando essi appaiono rattrappiti, chiusi in se stessi; quando promettono le riforme e poi brigano sotterraneamente per tenere in vita, così com’è, un sistema elettorale che consente ai segretari ed ai loro uomini di fiducia di nominare gli eletti in Parlamento. E per convincersi di ciò, basti pensare alla grande partecipazione che si registra intorno ai candidati sindaci che devono essere eletti dal popolo. Il fatto che costoro sono sempre più spesso candidati eletti a dispetto dei partiti, che vincono le elezioni in quanto «eretici», non può non fare riflettere. Il meno popolare dei sindaci oggi gode del 43% dei consensi, stando ai dati pubblicati di recente dal Sole 24 ore,mentre dei partiti si fida solo il 4% degli elettori. Sulle ragioni di questa abissale distanza creatasi, in termini di fiducia riscossa, tra i sindaci eletti dal popolo e i parlamentari «nominati» dai partiti, nei palazzi della politica non si rifletterà mai abbastanza. Nessuna riforma istituzionale, grande o piccola che sia,produrrà gli effetti sperati, se prima non verranno «riaperti al pubblico» i partiti. La privatizzazione dei partiti – l’unica privatizzazione veramente riuscita in Italia – non poteva non portare ad una sempre più diffusa apatia democratica. Non servono i palliativi, come quello di ridurre il numero dei consiglieri comunali e provinciali, o di tagliare le loro indennità. Si tratta di decisioni opportune, ma che da sole non risolvono la crisi della politica. Il problema non è tanto quello di legare le mani ai partiti, magari per fare crescere il potere dei burocrati, ma di avere partiti in grado di esprimere idee e dirigenti che facciano riguadagnare alla politica il necessario prestigio. Su questo terreno qualcosa è cambiato negli ultimi tempi. Lo stile del nuovo personale di governo piace a molti, ovunque collocati politicamente. Adesso, però, bisogna fare parlare i risultati.
Il confronto che si è aperto nella maggioranza, sul tema delle riforme – legge elettorale, riordino della forma di governo parlamentare, disciplina della vita interna dei partiti – offre, anche per il metodo che si sta seguendo, l’opportunità di coinvolgere l’opinione pubblica, da anni apparsa del tutto indifferente a queste discussioni.
Un accordo tra i più grandi partiti della maggioranza su temi difficili, come la legge elettorale e la riduzione del numero dei parlamentari, oggi è possibile perché la tregua politica mette tutti nella condizione di concedere qualcosa, senza cedere alla tentazione di rivendicare regole fatte su misura, magari minacciando la caduta del governo.
Naturalmente non mancano i dietrologi, i quali spiegano che tanta disponibilità a discutere sottenda la volontà di prolungare la tregua ben oltre la fine di questa legislatura, e quindi servirebbe a poco rompere oggi sui meccanismi della legge elettorale, se la larga coalizione è destinata a rimanere in piedi anche dopo le elezioni politiche.
Il governo Monti, insomma, sarebbe sempre più vissuto, da parte di chi lo sostiene, come un elemento di discontinuità rispetto al bipolarismo che abbiamo conosciuto, caratterizzato da grandi partiti baricentrici deboli e da partiti minori capaci di esercitare un diritto di vita e di morte sulle coalizioni.
Ebbene, anche se la disponibilità a negoziare dovesse dipendere dal disegno di creare le condizioni per una tregua lunga, essa va valutata positivamente. E’ questo il giudizio prevalente nel Paese, che vuole la soluzione dei problemi e non la ripresa delle faide tra i partiti. Nelle grandi democrazie, in momenti delicati della vita nazionale, le coalizioni larghe non hanno scandalizzato nessuno.
Le grandi riforme, del resto, hanno bisogno di ampio consenso. Una cosa pare infatti certa. Occorre un adeguato lasso di tempo perché il processo di riforma delle istituzioni possa compiutamente realizzarsi, dispiegando tutti i suoi effetti,e consentendo quindi eventuali correzioni di rotta,di fronte a incomprensioni o rifiuti manifestati dagli elettori.
Le esperienze fatte in questi anni in tema di grandi riforme dimostrano che un’alternanza che produce una totale discontinuità negli indirizzi di governo non è in grado di riformare un bel nulla. Finora, ogni nuovo governo, non appena insediato, si è proposto di fare la riforma della riforma voluta dal governo che lo ha preceduto, con la conseguenza che di nessuna riforma si possono verificare a regime i risultati. Pare che l’attuale governo voglia invertire questa tendenza; a cominciare dalla riforma universitaria voluta dal ministro Gelmini, e che il ministro Profumo è intenzionato, con qualche correzione, ad attuare.
Prevedere che un governo delle riforme abbia bisogno di un tempo più lungo di quello che rimane di questa legislatura, può costituire un atto di responsabilità da parte dei partiti dell’attuale maggioranza.
Se ciò non accadrà, la democrazia italiana continuerà essere debole, con il rischio che dopo il governo tecnico possano di nuovo prevalere derive populiste ed emergere nuovi uomini della
provvidenza
.

SALVO ANDÒ

domenica 12 febbraio 2012

Tutti i limiti di un bipolarismo di facciata. Una riforma che dia la parola agli elettori

da “La Sicilia” del 12 febbraio 2012


Non serve a nessuno continuare a recriminare sulle presunte pressioni esercitate dalla politica sulla Corte costituzionale nel momento in cui essa decideva sull'ammissibilità dei referendum aventi ad oggetto la legge elettorale vigente, il cosiddetto "porcellum". Su tale questione si è diviso il mondo politico, e si sono divisi anche gli studiosi. In punto di diritto, le argomentazioni dei favorevoli e dei contrari all'ammissibilità erano tutte degne di considerazione.
Adesso, comunque, si tratta di guardare avanti, dando una risposta congrua alle aspettative di tutti quei cittadini che si sono mobilitati a raccogliere le firme (e si è trattato di una mobilitazione senza precedenti ), per abrogare una legge elettorale che priva nei fatti gli elettori del diritto di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento.
Tenuto conto delle posizioni espresse dalla Corte Costituzionale, se la legge elettorale non può essere abrogata in toto per via referendaria, l'alternativa è: o ricorrere a dei referendum manipolativi, che modificano la legge elettorale facendone sopravvivere l'impianto complessivo, o seguire la strada parlamentare confidando nel fatto che, in un periodo di tregua politica come quello che si sta vivendo con il governo Monti, i partiti che fanno parte della larghissima maggioranza che sostiene il governo possano trovare un'intesa che sia rispettosa dell'opinione del paese.
Se non dovesse farsi né l'una né l'altra cosa, e se si dovesse votare con l'attuale legge, il rischio molto concreto è quello di avere lo "sciopero degli elettori", ai quali non rimarrebbe altro strumento per far valere il proprio punto di vista che quello di non andare a votare.
Ormai si sa tutto dei pro e dei contro dei diversi sistemi elettorali che sono stati finora presi in considerazione. Tutti i partiti dovrebbero essere in grado di fare delle scelte. E tuttavia, trapiantare un sistema elettorale di un paese in un altro non è un'operazione facile, perché la resa di un sistema dipende da abitudini sociali e culture politiche che sono proprie di un determinato territorio. Una cosa pare però certa. Un buon sistema elettorale per l'Italia dovrebbe essere un sistema diverso da quelli sperimentati dopo la fine della "prima Repubblica ". Tutti sistemi che muovevano dall'idea che il bipolarismo dovesse rappresentare la panacea di tutti i mali che affliggono la politica italiana.
Il bipolarismo, così come l'abbiamo interpretato in Italia, ha dato prove pessime, sia con governi di centrodestra, che con governi di centro sinistra. Leggi elettorali eccessivamente costrittive hanno creato schieramenti partitici affollati al proprio interno da partiti e gruppi politici che avevano poco in comune, o addirittura partiti scaturiti, come è stato detto, da una sorta di fusione a freddo di vecchi partiti o di pezzi di vecchi partiti.
Questi schieramenti, che apparivano già in partenza assai disuniti , in corso d'opera si sono sfasciati, e hanno finito con il produrre nuovi partiti e partitini (mai tanto numerosi nella storia unitaria ).Tanto disordine ha fatto persino emergere raggruppamenti politici fatti soltanto da transfughi dai diversi partiti, i quali si sono messi insieme al solo scopo di far cadere un governo o di garantirne la sopravvivenza.
Le leggi elettorali del bipolarismo, da questo punto di vista, hanno reso ancora più drammatica la questione morale in cui si dibatte da anni sistema politico italiano , ormai alle prese con una crisi di credibilità sempre più evidente ; solo il 4% degli italiani dichiara di avere fiducia nei partiti politici.
Con le alleanze coatte non si va da nessuna parte. Con un bipolarismo di facciata, peraltro rifiutato dal paese, non si fa crescere una cultura dell'alternanza proprio perché manca un'adeguata tensione bipolare, che non può scaturire dal fatto che delle tifoserie ,più o meno organizzate, si insultano a vicenda, senza che emerga un vero conflitto tra progettualità politiche diverse, tra visioni del mondo distinte.
Non sono i sistemi elettorali maggioritari, in un paese come il nostro in cui sopravvivono forti sentimenti di appartenenza partitica che nessuna legge elettorale può cancellare , che possono assicurare una buona governabilità , bensì congegni che garantiscano la funzione di governo in Parlamento e stabilizzino la vita dei governi attraverso la previsione di istituti come quello della fiducia data al solo Presidente del Consiglio e della sfiducia costruttiva che può prevenire il formarsi di maggioranze solo negative. Si porrebbe, per tal via, il parlamentare di fronte all'alternativa di scegliere tra una coalizione in grado di governare e lo scioglimento anticipato.
Nell'agenda del governo Monti non sono previste le riforme istituzionali, a cominciare da quella elettorale. Questo non può significare, però, che una coalizione così larga, che addirittura si propone di ripensare la stessa forma di Stato, rimodellando lo Stato sociale, non debba affrontare questioni istituzionali irrisolte da sempre . La finzione di un governo sostenuto da una maggioranza politica che non si vuole autoriconoscere come tale, è un ipocrita atto di omaggio al bipolarismo. Non si comprende perché partiti che votano le stesse leggi, debbano poi ignorarsi e limitarsi a riconoscere la regia del Presidente del Consiglio con riferimento ai comportamenti parlamentari posti in essere.
Si tratta di un teatrino della politica che non può durare a lungo .Più durerà il governo Monti, più questa idea di una maggioranza che c'è ma non si deve vedere sarà insostenibile. Questo Governo è sorretto da partiti che si sono assunti la responsabilità di governare insieme, sconfessando nei fatti le liturgie del bipolarismo, nel modo primitivo in cui è stato inteso in Italia in questi anni. Tenuto conto di ciò ,pare del tutto normale che i partiti della coalizione si riuniscono intorno a un tavolo per discutere di una nuova legge elettorale , e che il solo partito che si dichiara d'opposizione, la Lega , a quel tavolo non voglia sedere.
Avviare un confronto sulla legge elettorale, con il serio proposito di modificarla , costituisce poi una grande opportunità per affrontare questioni istituzionali delle quali da anni si discute. Sono state create nel corso degli ultimi trent'anni commissioni bicamerali, commissioni di studio, che hanno analizzato tutto ciò che c'era da analizzare con riferimento alle disfunzioni del sistema istituzionale. Tanto lavoro è approdato a un nulla di fatto. Adesso ci sono le condizioni politiche per affrontare questioni che riguardano il riordino della forma di governo, a cominciare dalla riforma del bicameralismo paritario, retaggio di un parlamentarismo inadeguato ai bisogni della società italiana, e dai punti chiave di una legislazione di contorno alla legge elettorale. Si tratta finalmente di consentire all'opinione pubblica di conoscere ciò che avviene dentro i partiti, per far sì che i principi che riguardano la trasparenza ed il metodo democratico , che dovrebbero valere per tutti gli apparati pubblici , possano valere anche per il mondo dei partiti.
SALVO ANDÒ