da “La Sicilia” del 16 marzo 2012
Il testo qui pubblicato nel giorno dell’anniversario del rapimento di Aldo Moro, avvenuto in via Fani il 16 marzo 1978, contiene passi della relazione svolta da Salvo Andò in occasione della presentazione del volume: “Moro nella storia contemporanea” (a cura di Francesco Perfetti e altri), svoltasi nei giorni scorsi a Roma nella sala del Refettorio della Camera dei deputati.
I cinquantacinque giorni del sequestro Moro sono stati, senza ombra di dubbio, i giorni più drammatici della storia della Repubblica. Mai lo Stato è apparso così debole, così indeciso sul da farsi di fronte ad una grave emergenza. Forze dell’ordine e apparati di sicurezza impegnati nelle indagini furono mobilitati in modo massiccio senza raggiungere alcun risultato pratico. Le lettere che Moro inviava dalla “prigione del popolo”, che contenevano, in forma criptica ovviamente, informazioni utili per potere scoprire il luogo di detenzione furono oggetto di interpretazioni superficiali e fuorvianti. Il governo non apparve mai in grado di intraprendere un percorso che potesse portare alla liberazione dell’ostaggio. Quotidianamente, decideva di non decidere. I partiti, a loro volta, si divisero in due schieramenti, quello della trattativa e quello della fermezza, polemizzando tra di loro, scambiandosi accuse di irresponsabilità e di cinismo.
In un clima avvelenato da paralizzanti impuntature ideologiche, non era pensabile che si potessero aprire spazi utili per un dialogo anche a distanza con le Br. Ma non solo. Moro fu rappresentato di fronte all’opinione pubblica, anche da alcuni settori del suo stesso partito, come un uomo disposto a tutto, anche a pretendere la capitolazione dello Stato, pur di salvare la propria vita e garantire il futuro della sua famiglia.
In quelle terribili giornate fu, oggettivamente, distrutta sia la statura morale dell’uomo che la figura dello statista, che per trent’anni era stato alla guida del governo, del partito e del gruppo parlamentare della DC.
Si disse che il Moro che scriveva dal carcere non fosse il vero Moro, che le cose che diceva erano scritte sotto dettatura dei terroristi; alcuni addirittura presentarono Moro come un prigioniero che interloquiva con i sequestratori non per fare esplodere le contraddizioni che c’erano all’interno dell’organizzazione terroristica – perché, così come è venuto fuori anche in occasione dei processi, dentro le Br c’era uno scontro tra una linea della fermezza ed una posizione trattativista –, ma come un uomo quasi disposto ad assecondare il processo che si faceva nei confronti della Dc. Moro nelle sue lettere chiedeva una «iniziativa umanitaria» a suo favore da parte dello Stato, perché convinto che dovere prioritario dello Stato fosse quello di salvare una vita umana.
Va rilevato che questa concezione sacra della vita umana scaturiva dalla sua profonda fede cattolica, dalla lealtà ai valori costituzionali, nonché dai principi che stavano alla base del sistema penale che aveva studiato fornendo contributi magistrali sul piano dottrinale.
Val la pena di ricordare che c’è una continuità di pensiero in questo senso tra il Moro studioso, il Moro politico e il Moro prigioniero delle Br.
Egli ricorda ai suoi interlocutori, soprattutto a quelli della sua parte politica, qual è la natura dello Stato e quali doveri ineludibili discendano da essa. Il pensiero filosofico di Moro è ben sintetizzato nelle dispense, poi pubblicate in volume, destinate agli studenti del corso di filosofia del diritto che nell’anno accademico ‘42–’43 egli teneva presso l’università di Bari. La sua idea che lo Stato non è solo forza, ma è forza coniugata a giustizia, fu efficacemente sviluppata anche attraverso gli interventi svolti all’assemblea costituente.
Il dovere di vivere di cui parla nelle lettere è lo stesso dovere di vivere di cui parlava nelle sue lezioni baresi, discutendo del valore della persona umana, ed esponendo quindi la sua concezione umanistica dello Stato. E’ muovendo da questa visione dello Stato e della libertà che egli, in una lettera della fine di aprile, indirizzata alla famiglia, afferma: «Ma da cosa si può dedurre che lo Stato va in rovina se, una volta tanto, un innocente sopravvive e, in compenso, un’altra persona va, invece che in prigione, in esilio? Il discorso è tutto qui». Si tratta di affermazioni che non gli venivano suggerite dalle Br, ma dalla sua formazione intellettuale e dalla sua fede cristiana. È la risposta a quanto si chiedeva Andreotti in televisione: «Quale sarebbe la reazione dei carabinieri, dei poliziotti, degli agenti di custodia se il governo, alle loro spalle, violando la legge, premiasse chi ha fatto scempio della legge stessa? E che cosa direbbero le vedove gli orfani, le madri di coloro che sono caduti nell’adempimento del proprio dovere?». Era facile replicare al Presidente del Consiglio che con il sacrificio di Moro certamente non si ridava la vita a coloro che erano stati uccisi dai brigatisti, e che non poteva essere motivo di conforto per le famiglie delle vittime sapere che Moro aveva fatto la stessa fine. (...)
A Moro sono state attribuite volontà, disegni che paiono assai lontani dal suo modo di vedere il futuro della democrazia italiana. Si è detto che l’Italia, con Moro vivo, avrebbe conosciuto un lungo periodo di tregua politica con Dc e Pci associati al governo.
Ciò non rispondeva affatto ai disegni di Moro, come è stato autorevolmente dimostrato da tanti studiosi, e soprattutto da Craveri.
Moro non era attratto dai comunisti sul piano ideologico certamente, né condivideva le scelte compiute dal partito comunista, sino agli anni 70, con riferimento alla politica europea, alle politiche sociali (avevano avversato le riforme del centro sinistra guidato da Moro), all’affermazione, anche da parte di Berlinguer, di una presunta superiorità del modello comunista rispetto a quello socialdemocratico, al metodo seguito per far opposizione criminalizzando l’avversario. Il processo alla Dc, in questo senso, era un’idea fissa nella cultura di quel partito (cultura questa che terrà campo fino al processo Andreotti). Moro registra con soddisfazione i cambiamenti intervenuti nel partito comunista con riferimento alla riconosciuta utilità dell’alleanza atlantica e alla presa di distanza dal regime sovietico da parte di Berlinguer, che tuttavia riconosceva ancora negli anni 70 la vitalità del modello sociale comunista.
Moro è convinto che una tregua col partito comunista serva alla democrazia cristiana per riorganizzare il proprio insediamento sociale, considerato che, a partire dagli anni 70, esso pareva essere ormai in crisi, ma soprattutto per fare fronte a forme esasperate di conflittualità sociale. Riteneva di dover vincere le resistenze della Dc per facilitare, attraverso le riforme, una integrazione effettiva delle masse nel processo di crescita democratica. (...)
La sfida con la sinistra andava ingaggiata affrontando la questione sociale in termini diversi da quelli attraverso i quali ci si era rivolti al paese nei primi anni della ricostruzione. Rifiutare il governo con i comunisti non significava ignorare ciò che rappresentavano le masse che quel partito organizzava politicamente.
Egli esortava il suo partito a non minimizzare il pericolo di un fascismo che si potesse esprimere in altre forme e quando, come ricorda Scoppola, la destra Dc pareva favorevole ad una apertura verso il movimento dell’“uomo qualunque”, Moro si oppose fermamente, non per ragioni di tattica politica, ma per ragioni che attenevano alla sua concezione dell’impegno dei cattolici in politica, convinto com’era che alla base di esso vi dovesse essere una forte ansia di moralità.
«L’esperienza politica – scrive Moro sulla rivista Studium nel 1945 – …si nutre del pensiero libero… Della suprema e nobile fatica di essere se stessi… L’uomo qualunque non è appunto se stesso, è altri da sé, disposto a tutto pur di conservare quella sua quiete che è una terribile perdita, la perdita dell’umanità…».
È ingiusto ritenere che Moro fosse vocato alla mediazione, patteggiando con tutti su tutto, indifferente a quei principi che danno moralità alla politica. Non ha mai pensato di patteggiare con le Br rivelando segreti che potessero nuocere al suo partito e allo Stato. Non ha pensato mai all’accordo con il partito comunista come ad un compromesso storico destinato ad annullare le differenze che rendevano Dc e Pci partiti tra loro alternativi, una volta realizzato un regime di democrazia compiuta. (…)
Certamente parlò a lungo nel carcere del popolo alle Br senza concedere, però, ai suoi sequestratori alcun vantaggio. Egli cercò attraverso il dialogo di piegare ai suoi fini le Br, ma non vi riuscì perché lasciato solo da chi aveva il dovere di aiutarlo.
In un clima avvelenato da paralizzanti impuntature ideologiche, non era pensabile che si potessero aprire spazi utili per un dialogo anche a distanza con le Br. Ma non solo. Moro fu rappresentato di fronte all’opinione pubblica, anche da alcuni settori del suo stesso partito, come un uomo disposto a tutto, anche a pretendere la capitolazione dello Stato, pur di salvare la propria vita e garantire il futuro della sua famiglia.
In quelle terribili giornate fu, oggettivamente, distrutta sia la statura morale dell’uomo che la figura dello statista, che per trent’anni era stato alla guida del governo, del partito e del gruppo parlamentare della DC.
Si disse che il Moro che scriveva dal carcere non fosse il vero Moro, che le cose che diceva erano scritte sotto dettatura dei terroristi; alcuni addirittura presentarono Moro come un prigioniero che interloquiva con i sequestratori non per fare esplodere le contraddizioni che c’erano all’interno dell’organizzazione terroristica – perché, così come è venuto fuori anche in occasione dei processi, dentro le Br c’era uno scontro tra una linea della fermezza ed una posizione trattativista –, ma come un uomo quasi disposto ad assecondare il processo che si faceva nei confronti della Dc. Moro nelle sue lettere chiedeva una «iniziativa umanitaria» a suo favore da parte dello Stato, perché convinto che dovere prioritario dello Stato fosse quello di salvare una vita umana.
Va rilevato che questa concezione sacra della vita umana scaturiva dalla sua profonda fede cattolica, dalla lealtà ai valori costituzionali, nonché dai principi che stavano alla base del sistema penale che aveva studiato fornendo contributi magistrali sul piano dottrinale.
Val la pena di ricordare che c’è una continuità di pensiero in questo senso tra il Moro studioso, il Moro politico e il Moro prigioniero delle Br.
Egli ricorda ai suoi interlocutori, soprattutto a quelli della sua parte politica, qual è la natura dello Stato e quali doveri ineludibili discendano da essa. Il pensiero filosofico di Moro è ben sintetizzato nelle dispense, poi pubblicate in volume, destinate agli studenti del corso di filosofia del diritto che nell’anno accademico ‘42–’43 egli teneva presso l’università di Bari. La sua idea che lo Stato non è solo forza, ma è forza coniugata a giustizia, fu efficacemente sviluppata anche attraverso gli interventi svolti all’assemblea costituente.
Il dovere di vivere di cui parla nelle lettere è lo stesso dovere di vivere di cui parlava nelle sue lezioni baresi, discutendo del valore della persona umana, ed esponendo quindi la sua concezione umanistica dello Stato. E’ muovendo da questa visione dello Stato e della libertà che egli, in una lettera della fine di aprile, indirizzata alla famiglia, afferma: «Ma da cosa si può dedurre che lo Stato va in rovina se, una volta tanto, un innocente sopravvive e, in compenso, un’altra persona va, invece che in prigione, in esilio? Il discorso è tutto qui». Si tratta di affermazioni che non gli venivano suggerite dalle Br, ma dalla sua formazione intellettuale e dalla sua fede cristiana. È la risposta a quanto si chiedeva Andreotti in televisione: «Quale sarebbe la reazione dei carabinieri, dei poliziotti, degli agenti di custodia se il governo, alle loro spalle, violando la legge, premiasse chi ha fatto scempio della legge stessa? E che cosa direbbero le vedove gli orfani, le madri di coloro che sono caduti nell’adempimento del proprio dovere?». Era facile replicare al Presidente del Consiglio che con il sacrificio di Moro certamente non si ridava la vita a coloro che erano stati uccisi dai brigatisti, e che non poteva essere motivo di conforto per le famiglie delle vittime sapere che Moro aveva fatto la stessa fine. (...)
A Moro sono state attribuite volontà, disegni che paiono assai lontani dal suo modo di vedere il futuro della democrazia italiana. Si è detto che l’Italia, con Moro vivo, avrebbe conosciuto un lungo periodo di tregua politica con Dc e Pci associati al governo.
Ciò non rispondeva affatto ai disegni di Moro, come è stato autorevolmente dimostrato da tanti studiosi, e soprattutto da Craveri.
Moro non era attratto dai comunisti sul piano ideologico certamente, né condivideva le scelte compiute dal partito comunista, sino agli anni 70, con riferimento alla politica europea, alle politiche sociali (avevano avversato le riforme del centro sinistra guidato da Moro), all’affermazione, anche da parte di Berlinguer, di una presunta superiorità del modello comunista rispetto a quello socialdemocratico, al metodo seguito per far opposizione criminalizzando l’avversario. Il processo alla Dc, in questo senso, era un’idea fissa nella cultura di quel partito (cultura questa che terrà campo fino al processo Andreotti). Moro registra con soddisfazione i cambiamenti intervenuti nel partito comunista con riferimento alla riconosciuta utilità dell’alleanza atlantica e alla presa di distanza dal regime sovietico da parte di Berlinguer, che tuttavia riconosceva ancora negli anni 70 la vitalità del modello sociale comunista.
Moro è convinto che una tregua col partito comunista serva alla democrazia cristiana per riorganizzare il proprio insediamento sociale, considerato che, a partire dagli anni 70, esso pareva essere ormai in crisi, ma soprattutto per fare fronte a forme esasperate di conflittualità sociale. Riteneva di dover vincere le resistenze della Dc per facilitare, attraverso le riforme, una integrazione effettiva delle masse nel processo di crescita democratica. (...)
La sfida con la sinistra andava ingaggiata affrontando la questione sociale in termini diversi da quelli attraverso i quali ci si era rivolti al paese nei primi anni della ricostruzione. Rifiutare il governo con i comunisti non significava ignorare ciò che rappresentavano le masse che quel partito organizzava politicamente.
Egli esortava il suo partito a non minimizzare il pericolo di un fascismo che si potesse esprimere in altre forme e quando, come ricorda Scoppola, la destra Dc pareva favorevole ad una apertura verso il movimento dell’“uomo qualunque”, Moro si oppose fermamente, non per ragioni di tattica politica, ma per ragioni che attenevano alla sua concezione dell’impegno dei cattolici in politica, convinto com’era che alla base di esso vi dovesse essere una forte ansia di moralità.
«L’esperienza politica – scrive Moro sulla rivista Studium nel 1945 – …si nutre del pensiero libero… Della suprema e nobile fatica di essere se stessi… L’uomo qualunque non è appunto se stesso, è altri da sé, disposto a tutto pur di conservare quella sua quiete che è una terribile perdita, la perdita dell’umanità…».
È ingiusto ritenere che Moro fosse vocato alla mediazione, patteggiando con tutti su tutto, indifferente a quei principi che danno moralità alla politica. Non ha mai pensato di patteggiare con le Br rivelando segreti che potessero nuocere al suo partito e allo Stato. Non ha pensato mai all’accordo con il partito comunista come ad un compromesso storico destinato ad annullare le differenze che rendevano Dc e Pci partiti tra loro alternativi, una volta realizzato un regime di democrazia compiuta. (…)
Certamente parlò a lungo nel carcere del popolo alle Br senza concedere, però, ai suoi sequestratori alcun vantaggio. Egli cercò attraverso il dialogo di piegare ai suoi fini le Br, ma non vi riuscì perché lasciato solo da chi aveva il dovere di aiutarlo.
SALVO ANDÒ
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